L'ultima intervista a Tiziano Terzani

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UNA RISATA MI SEPPELLIRÀ
La grande avventura della vita e della morte. In questa intervista-testamento di un uomo che sapeva sorridere.
di Marco Zanot

Quella che segue è una sintesi dell'ultima intervista rilasciata da Tìziano Terzani a una troupe tv. Fa parte di un documentario sulla vita del grande scrittore realizzato da Storyteller, una casa di produzione milanese. Il regista, Marco Zanot, ha raccolto la testimonianza di Terzani nella sua casa all'Orsigna, il 27 e 28 maggio 2004. Il film, realizzato in co-produzione con Andrea Broglia di Mediaset, andrà in onda a settembre 2004 su Rete 4 diretta da Giancarlo Scheri.

 

Tiziano Terzani il film sulla sua vita proprio non lo voleva fare. «Alla fine della mia vita», mi aveva scritto, «non voglio ricadere nella orribile trappola dell'ego che, assieme a quella dei desideri, ho dedicato molto tempo a distruggere». Insistiamo. «Non vuoi fare film? Bene, faremo un film su di te ma senza di te. Ripercorreremo le tue strade, vedremo la tua gente. A te chiediamo solo di fare davanti alla telecamera una possente risata, un urlo beffardo.» «Una risata non la si nega a nessuno», risponde. Così arriviamo all'Orsigna, sull'Appennino toscano, dove Tiziano ha scelto di passare l'ultima parte della sua vita, accolti da un cartello davanti a casa: "Ogni visita è sgradita senza eccezioni". Ci riceve vestito di bianco. Parla per tre ore. L'intervista continuerà il giorno dopo. E che giorno. Tiziano può mangiare poco. Tè e un pugno di riso bianco è quanto gli consente «il suo malanno», come lo chiama. Ma ci porta a mangiare i tortellini di ricotta e spinaci dalla sua amica Rosita, su alla Selva: «Sono i più buoni del mondo». Ogni tanto si zittisce con una smorfia di sofferenza e allunga la mano destra verso la moglie Angela, che la massaggia dolcemente. Alla conclusione di tutto, fa una sola richiesta: «Non andate a filmare il mio rifugio sull'Himalaya». Non ci andremo. Le immagini che vedrete nel film ci sono state date dal figlio Folco, suo amato complice di una parte della sua avventura umana.


Signor Terzani, lei ha un tumore. Così le ha detto quel medico di Bologna?

Un tumore? Ne ho vari, un po' di qua, un po' di là. Ma la cosa divertente è che ci convivo da sette anni. E poi, io e quelli siamo una cosa sola e sarebbe stupido pensare: loro ammazzano me, io ammazzo loro. Ce ne andiamo insieme perché siamo cresciuti insieme: e con questo trovo che per me il cancro è stato una benedizione, perché ero ricaduto nella routine delle vita e questo cancro mi ha salvato. Perché all'invito di un ambasciatore a cena, a una conferenza stampa, a un viaggio a cui non ero più interessato, io posso sottrarmi. Il cancro è diventato una sorta di scudo, di divisione tra me e il mondo da cui volevo staccarmi. È curioso: io ero vissuto in Asia quasi trent'anni, ma quando si è trattato di scegliere che cosa fare non è che mi sono affidato a uno col pendolo, o all'altro con delle pozioni di erbe magiche raccolte nella foresta. Sono andato nel più grande centro di cancro del mondo e mi sono affidato alla ragione e alla scienza, della quale conoscevo bene i limiti e durante la terapia questi limiti sono saltati agli occhi.

Ha sperimentato tutte le cure. Chirurgia, radioterapia, chemioterapia. In "Un altro giro di giostra" descrive i loro effetti.

Ho tenuto un diario di tutte le mutazioni che subivo a causa della chemioterapia. Una cosa incredibile: io che ho sempre adorato i film dell'orrore, sai quelli con le porte che scricchiolano, quelli col pugnale... mi facevano paura ! Entravo nel bagno, guardavo lo specchio e c'era uno che mi sorrideva, ma non ero io. Glabro, senza capelli, gonfio di chemioterapia. Ma chi è, questo qua ? Dopo è cominciata la grande avventura perché mi sono messo a cercare una cosa che potesse aiutarmi: lavaggio del colon, dieci giorni in un'isoletta della Thailandia con digiuni completi e clisteri di 18 litri al giorno due volte. Poi sono stato dai guaritori filippini, quelli che tolgono sangue, budellina di pollo dalle tue interiora. Poi, tante altre esperienze: la pranoterapia, il reiki, ma mi sono reso conto che in verità io non volevo una medicina per il mio cancro, volevo una medicina per quella malattia che è di tutti e che non è il cancro: la mortalità. Ma questa malattia con la quale nasciamo, la mortalità, è incurabile! Che è il suo bello, anche, della vita. Ci sono dei miti sulla mortalità. Una tribù della Nuova Guinea, per esempio, che viveva nelle palafitte, aveva scoperto che la mortalità era dovuta al tatto che tutti cacavano, e siccome tutti cacavano da queste palafitte, se non moriva mai nessuno la merda sarebbe arrivata su e sarebbero morti tutti. Per cui giustificavano la morte come quell'avvenimento che almeno ci salva dal far salire la merda. Allora, non c'è cura ma tutto può servire.

A un certo punto del viaggio lei è entrato in un Ashram e diventato Anam, il senzanome...

Per tre mesi sono rimasto isolato dal mondo, a studiare il sanscrito, i testi sacri e a mettermi in contatto con un modo di vedere le cose, che è uno dei più antichi, in cui tutto si relativizzava. Per cui ora sono in una condizione stupenda. Io sto benissimo. Un po' meno il mio corpo. Ma poi me ne staccherò, lo lascerò lì e andrò via. E diranno: "Ma Tiziano?". "Boh, è andato via, è rimasto quest'abito vecchio."

Ha detto che, a una certa età, il miglior modo di godere di un fiume è di stare fuori dalla corrente, guardare l'acqua, sentirla scorrere. Allora, perché si è di nuovo gettato nel fiume, dopo l'11 settembre?

Ero isolato, facevo l'eremita, non volevo più scrivere, ma mi pareva infingardo, codardo, non prendere posizione. Io stavo per ritornare nell'Himalaya, avevo fatto le valigie, ma mi pareva ingiusto, mi pareva di abdicare a tutto il senso della mia vita, che è stato quello di coinvolgermi in tutte le grandi storie, e ho scritto " Lettere contro la guerra ". Proprio perché le guerre le ho viste, ho visto i corpi martoriati, i villaggi distrutti, i cadaveri abbandonati sul bordo della strada mangiati dalle bestie, mi sono rimesso in viaggio e ho scritto queste lettere per mio nipote, perché un giorno dovrà decidere tra la pace e la guerra. La non-violenza è l'unica chance che l'umanità ha di sopravvivere.

È vero che, dopo l'11 di settembre, siamo tutti americani?

Ma che siamo tutti americani, io sono europeo! Dire a uno: "Ma tu sei antiamericano" è come dirgli che la sua mamma fa la prostituta. Io ho un figlio americano, ho un nipote americano. Ma cosa vuol dire questo: che non mi posso permettere di dire che oggi questa puzzona di America fa una politica spaventosa, che riporta la nostra civiltà indietro di centinaia di anni? La tortura. Beccaria è arrivato alla conclusione che non si può torturare. Mai. Passano dei secoli e ora gli americani dicono: "No, certo, non si può torturare, ma nel caso in cui si acchiappi uno che potrebbe sapere una cosa bisognerebbe torturarlo". E allora, dove va il principio, il tabù? Che cos'è la civiltà, se non il tentativo di gestire la violenza dell'uomo, di mettergli delle regole, di dargli altre direzioni?

E Dio dov'è, da che parte sta?

Dappertutto. Ieri ho incontrato il vecchio parroco del paese e gli ho detto: "Lei mi spieghi questa storia del corpo: voi promettete alla gente che un giorno suonano le trombe - papapa - e tutti riprendono il loro corpo. Quale corpo? E se tu eri gobbo, storpio? Ti ridanno quello lì? Ma io ne voglio un altro, scusa!". Vede, questa di dire che Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza è una balla! È l'uomo che ha fatto Dio a sua immagine e somiglianza, l'ha messo su una nuvola. L'ha messo a giudicare. E gli ha attribuito tutte le più orribili emozioni umane. Questo Dio vendicativo, cattivo, che ti guarda sempre. Ma chi ha questi sentimenti? L'uomo, vendicativo, cattivo, orribile nei confronti dei suoi simili.

L'Occidente tornerà a ridere?

Lo spero. Perché una civiltà che non sorride è infelice. E io trovo che ridere è una cura, è parte della guarigione. Infatti, una delle terapie che ho scoperto in India è la terapia del sorriso. Una mattina, in un parco, c'era un gruppo che, dopo aver fatto un po' di voga, a un certo ordine alzava le braccia e cominciava a ridere. E quale modo migliore per cominciare la giornata che magari finisce in un ufficio ad aria condizionata ? Per cui il consiglio che do a tutti è cominciare con una gran risata e finire con una gran risata.

(tratto dal settimanale "L'Espresso", 12 agosto 2004)